Thursday 31 May 2007

E' triste. Ma, in fondo, lo sapevamo già.


Incontrarsi, amarsi, dirsi addio. Quattro parole che racchiudono tutto, come le quattro partite di playoff giocate con addosso un'emozione travolgente. Quattro parole che Delonte Holland ha dentro nel cuore e messo in valigia da tempo, insieme con la colonna sonora del suo anno trascorso a Varese. Un blues pieno di malinconia, da abbinare a note struggenti e lamentose. Parole tipo: "Nobody knows the trouble l've seen...", ovvero: "Nessuno sa quello che ho visto e sofferto...". Mahalia Jackson, la più grande voce del blues, con le parole tristi e cariche di rammarico pronunciate da Delonte Holland, ci avrebbe riempito il mitico Apollo Theatre. Noi, assai più modesti, ci limitiamo a girarvele alla stregua dell'impressione che ne abbiamo ricavato: una testimonianza lucida, quieta, rilasciata senza livore da parte di un ragazzo che lascia la nostra città. Probabilmente per sempre.

«Alla Pallacanestro Varese - dice Holland -, ho vissuto una stagione speciale, fantastica per certi versi, dilaniante per altri, ma sempre con un livello emotivo altissimo. La partecipazione offerta dal pubblico in garadue e garaquattro rappresenta un "qualcosa" che non potrò mai dimenticare, perché nella mia vita da giocatore non avevo mai assistito a un simile spettacolo».

Usa espressioni da giocatore in partenza. Per caso sono già delineate le prospettive sul futuro?
«No, all'orizzonte non c'è proprio nulla, tranne il fatto - spiega serenamente Delonte -, che, oggi come oggi, la Pallacanestro Varese costituisce, nell'ordine, la mia terza opzione dopo la "chance" NBA, che tenterò sicuramente in estate e, in seconda istanza, una squadra che partecipi alla prossima Eurolega perché mi piacerebbe misurarmi con il livello "top" del basket europeo. A Varese sono stato divinamente, e credo d'essere cresciuto sia come giocatore, sia in termini di comprensione del gioco. Ma la pallacanestro è la mia vita ed io sono ambizioso. Così è naturale che io voglia "vedere" come possa comportarmi tra i migliori».

A giochi conclusi, qual è il suo bilancio?
«L'annata è stata un ottovolante di emozioni, fatto di risultati importanti, cadute impreviste e sconfitte maturate in circostanze incredibili. Tuttavia, vorrei ricordare a tutti i tifosi che la squadra ha mostrato sempre grande solidità e, a dispetto di qualche disavventura, è stata brava a rimanere costantemente in zona playoff. In buona sostanza il bilancio è soddisfacente visto che abbiamo centrato i due obiettivi stagionali: la Final 8 di Coppa Italia e i playoff, e abbiamo disputato un finale di stagione in crescendo ma...».

Ma?
«Ma se mi chiedete un parere complessivo non posso dire di essere contento. Non sono soddisfatto, il sapore amaro di certe sconfitte mi fa ancora compagnia. Perché - continua l'ala di Greenbelt -, con qualche punto in più avremmo potuto affrontare i playoff in una posizione migliore vista la nostra mentalità vincente. Già buona ma, evidentemente, non all'altezza delle nostre avversarie».

Quali sono stati momenti "più" e "meno" della stagione?
«Identifico il "più" nella vittoria casalinga contro Scafati, quella che ci ha fatto girare il senso della stagione. In quel momento la squadra, sul rischio di sprofondare, ha evidenziato una reazione da grande gruppo e messo in mostra una fortissima voglia di vincere. Il "meno" e certamente legato alle quattro sconfitte consecutive subite nel girone di ritorno e, in particolare, alla gara giocata senza cuore, senza testa, senza mentalità che abbiamo disputato a Livorno».

Quali, a questo punto, i voti per la squadra e per Holland?
«La squadra, proprio per quello che dicevo prima, mi è piaciuta e dal mio punto di vista merita un voto altissimo: 9, anzi, 9 e mezzo. Per me, invece, il giudizio definitivo non va oltre il 7 perché, al pari della squadra, ho accusato diversi alti e bassi. Un aspetto del mio modo di stare in campo che non sopporto e devo assolutamente migliorare».

Cosa ha apprezzato di più del suo periodo trascorso a Varese e cosa l'ha maggiormente infastidita?
«Apprezzamento assoluto e gratitudine vanno all'intero staff societario ed è stato bello conoscere e veder lavorare un gruppo di eccellenti professionisti e non voglio fare nomi perché rischierei di dimenticare qualcuno. Fastidi invece no, nessuno».

A ogni modo, se parliamo di problematiche, bisogna ricordare che la sua annata è stata caratterizzata dall'episodio dicembrino con coach Magnano...
«A questo proposito vorrei essere chiaro e ribadire una volta per tutte che con coach Magnano non ci sono stati mai problemi personali. Ma, fatta questa premessa, nemmeno posso sorvolare sul fatto che, sotto il profilo squisitamente tattico, Magnano ed io apparteniamo a mondi cestistici distanti e, soprattutto, nettamente contrastanti tra loro. In termini di pallacanestro giocata abbiamo idee troppo diverse e, personalmente, ritengo che il sistema di gioco adottato da coach Ruben mi abbia impedito di rendere al meglio o, quanto meno di sviluppare al massimo potenziale le mio qualità o caratteristiche tecniche. Un lavoro che, invece, dovrebbe essere quello principale per chiunque voglia allenare al livello dei "Pro". Io, al contrario, in tante occasioni mi sono sentito come se avessi avuto le catene ai piedi, limitato anche nelle situazioni più semplici. Una sensazione che, vi giuro, fatico a descrivere a parole e spesso mi ha fatto stare male, facendomi domandare cosa avrei dovuto fare per migliorare e rispondere alle richieste del tecnico. Capita l'antifona mi sono piegato, come tutti, agli ordini del coach, ma arrivare alla fine dell'anno è stato difficile, complicato, faticoso, e l'esperienza alle dipendenze di Magnano è stata in buona parte da cancellare. E, se possibile - conclude Delonte -, da non ripetere».

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