Friday 23 March 2007

Vedder speech at the Rock 'n' Roll Hall of Fame


Buonasera,

Uhh…. Sì! Uhhmmm, sapete, da ragazzo, quando vai a scuola, se mai ti capita anche solo di fantasticare di diventare un giorno un musicista, uno degli aspetti più attraenti a cui puoi pensare, a proposito del venire pagato per suonare musica, è che non dovrai mai più scrivere un altro tema o fare un discorso di presentazione per qualcosa. Ma siamo qui e devo dire che sono molto onorato.

Um, sapete, ci sono due biografie molto ben scritte sui REM: una di 397 pagine, l'altra di 408. E' difficile anche solo tentare di condensarle in alcuni paragrafi ma ci proverò, dal momento che non vogliamo che questo discorso diventi lungo come quello che feci per i Ramones qualche anno fa [fa una smorfia]. Uhh, la musica dei REM è veramente onnicomprensiva. Hanno usato ogni colore sulla tavolozza, hanno inventato dei colori propri, hanno dipinto questo enorme murale di musica e suono ed emozione, grandi come degli edifici… e continuano a farlo ancora oggi. E la storia di come si misero insieme non potrebbe essere scritta, specialmente considerando questa serata… non potrebbe essere scritta in modo più… romantico. E la storia è che Michael Stipe e Peter Buck si incontrarono per la prima volta in un negozio di dischi dove Peter lavorava, e uhhh, - Wuxtry Records ad Athens, in Georgia. La loro prima conversazione, la loro prima discussione, uhhm, riguardava i primi quattro dischi di Patti Smith [pausa e applausi]. Uh, il batterista Bill Berry e il bassista, etc, Mike Mills, si conobbero alle superiori. Suonavano insieme in un gruppo a scuola, e le due coppie di amici si incontrarono al college, ad Athens… 27 anni dopo, stanno per essere indotti nella Rock and Roll Hall of Fame! Vedete come ho tagliato tutto il resto per rendere il discorso più scorrevole? [il pubblico applaude]

Ma! Ci sono un paio di cose di cui devo parlare, la più difficile delle quali è Michael Stipe. E, come si può spiegare il dialogo tra Michael e l'ascoltatore - un dialogo che è cresciuto nel tempo e con cui noi siamo cresciuti? Uh, c'è tanta saggezza nei sentimenti in queste canzoni che, penso, ci hanno aiutati a trovare cose che sapevamo di avere dentro di noi, e penso che ci abbiano aiutati anche a trovare cose che non sapevamo di avere dentro di noi. E posso dire che ci sono cose che tengo e sento molto profondamente qui dentro [si mette una mano sul cuore], che sono state messe lì proprio da Michael Stipe. La cosa davvero incredibile, a questo riguardo, è che mentre succede questo... tutto questo succede senza che uno sia in grado di capire nemmeno una cazzo di parola di quello che lui dice [guarda intorno] .… questo nei primi dischi ed è, era… è una cosa così bella ed è così aperto all'interpretazione tutto ciò… sapete, nell'estate del 1984 sono stato abbastanza fortunato da vedere i REM suonare dal vivo in un piccolo locale a Chicago, uhm, e potrei continuare a parlarne perchè mi ricordo assolutamente ogni cosa di quella sera, ma quello che dirò è che ha cambiato il mio modo di ascoltare musica e ciò che ascoltavo, perché dopo di allora cominciai ad ascoltare esclusivamente loro. A quel tempo avevano all'attivo solo un disco e mezzo [Vedder si riferisce a “Chronic Town”, un EP pubblicato nel 1982 e a “Murmur”, il loro primo album, pubblicato nel 1983, n.d.t.], e ho fatto il calcolo quindi non ho esagerato - questo disco, “Murmur”, dura 44 minuti, deve … [il pubblico applaude] “Murmur”… se prendo tre mesi di quell'estate dell'84 e faccio il calcolo, “Murmur” dura circa 44 minuti, quindi credo di averlo ascoltato per 1260 volte. E una delle ragioni per cui lo ascoltavo in modo così incessante era che dovevo sapere cosa stava dicendo. Sapete, è così bello, con spirito e passione e, nel caso di Michael, un incredibile set di pipe, che, uh, sapete, siete trascinati in un mondo di interazione ed interpretazione. I testi sono diventati… più diretti, uh, e ora lui mette anche i testi nei dischi così uno può effettivamente… lui è… dovrebbe… dovrebbe essere così orgoglioso, perchè lui è un vero poeta: può essere diretto, può essere completamente astratto, può suscitare un' emozione con precisissima accuratezza e può essere completamente obliquo e tutto viene compreso. Questo è Michael... beh, questo è parte di Michael… uh, yeah… [scuote la testa], c'è così tanto da dire su Mike - lo amo.

Peter Buck suona la chitarra come uno che ha lavorato in un negozio di dischi [il pubblico applaude]… e quando dico questo, dico che tutto il suo modo di suonare la chitarra non è necessariamente derivativo di tutta questa musica che conosce. E' che conosce la sua musica così bene, che è più un suonare attraverso i buchi e inventare cose e toccare punti ancora da coprire e di conseguenza, credo, spingere il progresso dei Rock and Roll. Penso a lui e alle sue bellissime figlie e a quello a cui ha contribuito, aprendo una strada per la musica alternativa per gruppi come i Nirvana e i Radiohead e da qui all'infinito. Uhm, da un negozio di dischi di Athens fino alla Rock and Roll Hall of Fame, è un viaggio straordinario.

“Ora, se i REM hanno avuto un'arma segreta, direi che è stato Mike Mills [il pubblico applaude]. Suona il basso, il piano, un certo numero di strumenti ed è un autore, un geniale autore di musica ma, uh, credo che l'arma segreta sia la sua voce. Uh, non, uh, in realtà non è una seconda voce, è quasi come una seconda voce principale, e credo che sia proprio questo ciò che rende così tante loro canzoni, uh, assolutamente evocative. Uhm, ed è… uh, sapete, è… nascosto – lui è nascosto - anzi in realtà, in realtà lui è stato nascosto fino a circa 14 anni fa, quando cominciò ad indossare questi completi dai colori sgargianti [il pubblico ride] con enormi ricami e strass… e questa fu una mossa coraggiosa a quel tempo, perchè questo, sapete, grunge – quello era all'incirca il periodo in cui era di moda il grunge , quindi questo fu….

Ora, non so se sapete la storia del batterista Bill Barry… ma all'incirca in quel periodo, il periodo dei completi, uum, dei completi di Mike, Bill Barry ebbe un, uh... lui, lui stava suonando in Svizzera e nel bel mezzo di un concerto, fu colpito da un aneurisma cerebrale e quasi morì e… penso di aver letto da qualche parte che l'aneurisma possa essere stato provocato da una luce stroboscopica… ma stavo giusto pensando che forse può essere stato uno dei completi di Mike [il pubblico e i REM ridono]… forse quello arancione!

Così, in tutta serietà, Peter Buck ha detto che se, uh, se quella volta non fossero stati in Svizzera e avessero avuto dei bravissimi dottori, Bill avrebbe potuto non farcela. E, uh, Bill si rimette dopo un paio di mesi di intensa riabilitazione e poi, um, fanno altre cose… finiscono quel tour, fanno un altro disco, vanno ancora un po' in tour. A quel punto, penso che l'ostacolo più difficile che dovettero affrontare fu quando Bill disse che non pensava di poter continuare a suonare con loro. E fu ciò che fece… quando lo fece, disse, “Ma ho bisogno di sapere che continuerete”. Usando le sue parole, disse, “Non posso essere considerato l'idiota che ha posto fine ai REM.”

E per suo sollievo, sono andati avanti e hanno fatto cose incredibili. Ummm, ma io ho, io… mi chiedo se dovrei addentrarmi in questo, ma io ho una teoria su Bill e sul perchè non poteva continuare, e non penso nemmeno che, ummm, non penso che fosse per via dei tour, non penso che fosse per via del viaggiare. Ho studiato delle loro foto nel corso degli anni e… e mi sembra che il motivo per cui Bill non potè continuare, fossero le sessioni fotografiche [il pubblico non ride]… mi spiego meglio: tu fai un disco, mixi un disco, realizzi l'artwork, pianifichi un tour, e poi fai… delle sessioni fotografiche. E altre sessioni fotografiche. E succede che ti dicono, “Bill! Puoi metterti dietro ora, bene, se puoi mettere la tua testa tra Michael e Peter. Bene. Ora, se puoi solo sporgerti in avanti e – mento in su per favore! – mento in su! – ora, non guardare me. Guarda la mia mano! Bene. Ora saresti così gentile da… puoi farmi gli occhi grandi?” [il pubblico ride, i REM ridono]. Questo è quello che succede e credo che l'abbia fatto impazzire. Io… sto solo cercando di interpretare… non impazzire! Ma dovette fermarsi, lui era… se guardate le foto, potete vederlo raggelare… ed è come se dicesse… ”Non posso più farlo! Non posso più farlo! Me ne andrò e diventerò un… fottuto contadino!” [il pubblico ride]. Cosa che fece. E penso che viva felicemente da allora. E, uh, da fan, è un incredibile, eccitante brivido vederlo qui stasera.

Um, in conclusione, se posso aggiungere una nota personale , dirò solo che Peter si è trasferito a Seattle qualche anno fa e ora hanno dei grandi musicisti di Seattle che suonano nella loro band - um, un grande batterista che si chiama Bill Rieflin, um, Ken Stringfellow e Scott McCoy, che è qui stasera. Peter è una parte così straordinaria della nostra comunità musicale là. E, quando si trasferì là, la musica di Seattle e tutto il resto stava andando un po' fuori controllo e loro ci hanno davvero presi tutti sotto le loro ali protettive, così come hanno fatto con altri musicisti come Thom Yorke e altra gente di quel livello. E, um, sono diventati come dei fratelli maggiori e, come sopravvissuti, avevano così tanto da insegnarci. Umm, non poterono salvarci tutti, anche se ci provarono, e ora vorrei che ci fosse Kurt Cobain qui a fare questo discorso stasera. Sarei stato così contento di essere la seconda scelta dopo lui [il pubblico applaude]. Ma quello che voglio dire è che non importa cosa possiamo ridare loro nella forma di questo riconoscimento, perchè non compenserà mai quello che ci hanno dato loro – e questo senza nemmeno nominare le cause sociali e l'attivismo, che non dovrebbero essere un'appendice. Ci hanno insegnato tanto anche su quello, e ci hanno ispirati [il pubblico applaude]. Quindi sono veramente indebitato a dire questo come rappresentante di così tante persone, e dico grazie da parte mia e dell'enorme numero di persone in tutto il mondo che sono state toccate da loro, um, e grazie a qualche strano potere che mi hanno conferito, proprio ora, con questo introduco i REM nella Rock and Roll Hall of Fame.

Thursday 22 March 2007

Il più grande momento in assoluto

oooohh... oooohh...
one two three four...
i seem to recognize your face...
è iniziato così. un accordo di chitarra e una frase da profezia che si avvera, e i pearl jam hanno sfondato la porta. "eccoci qui", hanno detto, e io ero lì, come avevo promesso, come doveva essere, come da cinque anni sognavo e aspettavo che accadesse. sono tornati in italia, 75 mesi e due album dopo, e a cantare a squarciagola e a percorrere il paese per star loro dietro c'ero anch'io, perchè questo era il delirio che mancava, e sicneramente non avrei sopportato nemmeno per un secondo di essermeli persi.
hanno iniziato con small town, trasformando bologna in una polveriera, e volendo guardare a fondo, e forse nemmeno troppo, hanno scelto la canzone perfetta, almeno per me, quasi a chiudere una storia apertasi di fronte a un muro di un appartamento che le ha viste tutte. quella era stata la miccia che più o meno inevitabilmente aveva innescato tutte le bombe che erano poi arrivate; i cd masterizzati, i testi tradotti, le lezioni date a gratis. i pearl jam erano entrati di schianto nella mia vita, come di schianto può entrare solo un vero amore; e solo a un vero amore potevo infondere quella che è sempre stata più di una passione, e solo un vero amore poteva aver dentro la voglia e la gioia di condividere un bene regalato, andando a leggere ben oltre le righe di un discorso che tecnico non era pur avendone, a volte, la parvenza. come sia finita è storia nota, come è noto che di tristezza ce n'è stata molta; ma passando da i am mine al vero significato di betterman, assorbendo la bellezza subitanea di sad e il testo di crazy mary, non c'è nulla di vedder e compagni che sia andato perduto o abbia mancato di valore, e non c'è nulla che mi abbia fatto sentire male o abbattuto riascoltando quelle note troppo simili, in talune circostanze, a una colonna sonora. perchè i pearl jam erano e sono innanzitutto miei, come i beatles erano di rob fleming, e niente e nessuno, neanche le intemperie della vita, avrebbe potuto macchiare i riff di gossard e gli assoli di mccready , nè il devastante impatto della state of love and trust di milano e pistoia.
quattro serate di commozione, chiuse come da copione da yellow ledbetter, e scusate se non vado a fondo nel descrivere quello che i quattro palchi hanno fatto vedere e sentire: certe cose non si possono raccontare, devono restare pure, senza che banali cronache ne tolgano la forza d'urto e l'esclusività dell'avvenimento.
si potrebbe raccontare di una bologna senza corduroy e rearviewmirror, dell'attesa di torino, lunga quattro minuti buoni, prima dell'esplosione di saw things... saw things..., si potrebbe raccontare che al forum stavo per precipitare dalla balaustra all'attacco di state of love and trust, sarebbe bello descrivere il momento in cui eddie ha annunciato this is for this flag here... one quick one... ed è partita, tempo zero, tremor christ (tremor christ!!!), urlerei per anni la gioia provata nell'udire il trittico di pistoia dissident breath i got shit, ma la verità è che non sono in grado di narrare le cose come meriterebbero... e allora, lasciamo stare.
i pearl jam torneranno, o forse non torneranno, e io andrò a vederli oppure no; ma quella prima volta, questo settembre di urla e sudore e di chilometri nella notte, resterà unica. come sono unici loro, senza il bisogno di scomodare altri gruppi più o meno geniali. perchè di ragazze belle o bellissime è pieno il mondo; ma quella che ami, fino a prova contraria, è una sola.

Tuesday 20 March 2007

Circolo vizioso


II Napoli era già venuto a cercarmi nel ‘79, quando ancora stavo all'Argentinos... Mi avevano persino mandato una maglia all'albergo dove eravamo in raduno, accompagnata da una lettera in cui dicevano che per prendermi stavano solo aspettando che aprissero le frontiere agli stranieri. Mi invitavano a passare dieci giorni da loro, tutto pagato, amigo, tutto pagato, mi volevano riempire di regali, ma io non ne volevo sapere! A quei tempi si parlava anche dello Sheffield in Inghilterra, dello stesso Barcellona, che ne so... Per me, valevano tutti come l'Estrella Roja di Fiorito... Per me il Napoli era qualcosa di italiano e basta, come la pizza.
La cosa curiosa è che anni dopo, quando vennero a cercarmi a Barcellona, continuavo a non sapere niente di loro. Erano venuti apposta per me, avrebbero detto i gallegos... La verità è che desideravo solo andarmene da lì, dalla Spagna, dalla Catalogna, da Nunez. Non importa dove. Adesso tutti mi chiedono: perché non alla Juventus, perché non al Milan, perché non all'lnter?... Perché l'unico che si preoccupò di farmi un'offerta fu il Napoli! E anche perché Giampiero Boniperti, ex giocatore e all'epoca presidente della Juve, aveva detto che una persona con un fisico come il mio non poteva arrivare da nessuna parte. Bueno, da qualche parte sono arrivato, mi sembra. Il calcio è talmente bello, talmente incomparabile, che dà spazio a tutti. Persino ai... nani come me.
Sta di fatto che io volevo cambiare aria e giocare. Vediamo se mi spiego: non dico giocare bene, dico giocare... Giocare un campionato intero. E avevo più di una ragione. Tanto per cominciare, il Barcellona mi cedette sapendo molto bene dove andavo a finire, ai catalani non sfuggiva niente: non ritenevano quella squadra italiana un rivale pericoloso in Europa. In secondo luogo, ancora più importante, c'era qualcosa che non ho mai raccontato nei particolari: noi avevamo bisogno di un affare, perché a Cyterszpiller era andata talmente male con i numeri che stavamo a zero.
Sissignori, rovinati... Rovinati economicamente. Quando arrivai al Napoli ero a zero... e con i debiti. Questo è un altro motivo per cui non finii né alla Juventus né al Milan né all'lnter. Venne fuori la storia del Napoli e sistemammo tutto in fretta. Jorge aveva comprato di tutto, petrolio, case, sale di bingo in Paraguay... e tutto con i miei soldi! Andò così, è passata. A me accadde quello che canta la Negra Sosa: caddi e mi rialzai. Avevo venticinque anni e nemmeno un soldo. Non l'ho mai spiegato a nessuno, nemmeno alla mia signora: dico solo che ero rimasto senza un centesimo per colpa mia. Mi toccò ricominciare da capo... Certo è che ne avevamo bisogno, avevamo debiti a destra e a sinistra. Talmente tanti che del 15% che mi spettava, cioè un milione e mezzo di dollari, non vidi un soldo. Ci toccò dar via anche la casa di Barcellona nel quartiere Pedralbes, per pagare i debiti.

5 luglio 1984
Il giorno della presentazione, solo per vedermi, arrivarono al San Paolo ottantamila napoletani! Era giovedì 5 luglio del 1984. L’unica cosa che dissi fu quello che mi avevano insegnato:
"Buona sera, napoletani. Sono molto felice di essere con voi…", poi spedii il pallone in tribuna.
La gente era in delirio e io non capivo nulla. Ero vestito con una tuta da jogging celeste, una sciarpa del Napoli, una maglietta bianca della Puma e piazzato in mezzo a una bandiera che avevano steso per terra. Ascoltai per la prima volta un inno che avevano composto per me: "�aratona, piensece tu / si mo’ nun succede, nun succede cchiù. / L’Argentina tua sta ccà / nun putimm cchiù aspetta’". Poi agli altoparlanti mandarono una canzone di El Choclo, proprio a me che sono innamorato del tango… Rimasi un quarto d’ora, quindici minuti e non di più, perché dovevamo partire per Buenos Aires in vacanza. Quando scesi le scale del tunnel per andarmene dallo stadio, mi incontrai con Claudia e la abbracciai piangendo… Mi tremavano un’altra volta le gambe, come quando avevo cominciato al Boca. Era stato tutto molto intenso, negli ultimi tempi, e sapevamo entrambi che ci stavamo giocando la vita, che stavamo ricominciando da capo. Ma questa volta in un posto con il quale avevo molto da spartire. Per questo avevo detto ai giornalisti qualcosa che mi era venuto dal cuore, con sincerità:
"Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono com’ero io quando vivevo a Buenos Aires".

Campionato 1984-85
Approdai al Napoli e, senza saperlo, mi ritrovai in una squadra di serie B. Una squadra di serie B che gioca contro una di serie C per la Coppa Italia e finisce schiacciata davanti a una porta. Per reazione, mi impossessai non so come di una palla e la infilai in un angolo: vincemmo 1 a O, ma capii che avrei sofferto, che avrei sofferto molto. Il curriculum del Napoli me lo dettero quando avevo già firmato: a quel punto venni a sapere che nelle ultime tre stagioni aveva lottato per evitare la retrocessione e che nell'ultimo campionato, quello dell'83/"84, si era salvato... per un punto! Allora chiesi se per lo meno mi garantivano tranquillità. Mi dissero di sì, e andammo avanti. Senza parlare del fatto che durante le trattative i tifosi avevano perfino organizzato uno sciopero della fame, per farmi arrivare. Non esagero, eh? Uno sciopero della fame! Uno di loro, mi pare che si chiamasse Gennaro Esposito o qualcosa del genere, si era addirittura incatenato ai cancelli del San Paolo. Allora cominciai a mettermi in sesto fisicamente perché sapevo che per vincere, nel calcio italiano, c'era bisogno di un altro fisico. Il fatto è che i difensori italiani non erano come gli spagnoli: in Spagna ti massacravano a gomitate e a calci, a me le avevano date pure in bocca, mentre in Italia no, un po' perché la televisione li svergognava, ma soprattutto perché si allenavano a marcare. Avevo sempre presente il ricordo di Gentile, nel Mondiale '82! Mi adeguai, mi adattai, e in quella fase fu fondamentale Remando Signorini.
lo lo chiamavo il Cieco, perché non riusciva a vedere una mucca dentro una vasca da bagno, ma di preparazione fisica ne sapeva molto, moltissimo, più di chiunque altro. Era arrivato a me in un brutto momento, dopo l'infortunio in Spagna. Allora mi aveva aiutato a recuperare, anche per questo ero potuto tornare in campo dopo 106 giorni. A Napoli il lavoro era diverso: consisteva nel mettere a punto la macchina. E ci riuscimmo. Fin dal primo giorno, nel ritiro prestagionale di Casteldelpiano, mi fecero sentire come un napoletano: applaudivano i miei colpi di tacco, il mio sinistro, le rovesciate - feci un gol così nel primo allenamento -, le finte... Mi festeggiavano per qualsiasi cosa.
L'allenatore era Rino Marchesi e il 16 settembre del 1984 debuttammo in trasferta contro il Verona. Ce ne fecero tre. Loro avevano il danese Elkjaer Larsen, il tedesco Briegel... Il tedesco mi faceva così, taci, e mi buttava fuori dal campo. Ci ricevettero con uno striscione che mi fece capire, di colpo, che la battaglia del Napoli non era solo calcistica: "Benvenuti in Italia", diceva. Era il Nord contro il Sud, i razzisti contro i poveri. Chiaro, loro finirono vincendo il campionato e noi...
Nella prima tornata del campionato '84-'85 facemmo nove punti. Nove punti! Arrivai a Buenos Aires per le feste natalizie con una vergogna che non si può descrivere. Al ritorno, per la seconda metà del campionato, quando dovevamo cominciare di nuovo, in Italia faceva un freddo cane. Il 6 gennaio, giorno dell'Epifania, andammo a giocare contro l'Udinese, che aveva fatto otto punti e combatteva con noi per evitare la retrocessione... Era una partita per evitare la B, e ciò mi dava una disperazione terribile! Sta di fatto che vincemmo 4 a 3: con noi giocava il Chancha Bertoni, Ricardo Daniel Bertoni, autore di due gol, e io feci gli altri due su rigore. Da quel momento, da dopo le feste, facemmo più punti del Verona che diventò campione. Noi 24, loro 22. Restammo fuori dalla Coppa UEFA per due soli punti, lo segnai 14 reti, arrivando terzo nella classifica dei cannonieri, a 4 da Platini... Nel campionato italiano c'erano tutti i migliori nene: Platini appunto, Rummenigge nell'lnter, Laudrup nella Lazio, Zico nell'Udinese, Socrates e Passarella nella Fiorentina, Falcao e Toninho Cerezo nella Roma...
Con già maggiore credibilità, affronto Corrado Ferlaino, il presidente della società, e gli dico:
"Compri tre o quattro giocatori e vendi quelli che la gente fischia. Il suo termometro deve essere questo: quando io passo il pallone a qualcuno e lo fischiano, ciao... Altrimenti cerchi di vendermi perché io, così, non rimango. Mi compri un paio di giocatori. Per esempio Renica, della Sampdoria, che lo fanno giocare da numero tre ed è un libero de la puta madre".
E andavamo costruendo la squadra, così la andavamo costruendo.

Campionato 1985-86
Per la seconda stagione, quella dell'85/'86, arrivarono Alessandro Renica, Claudio Garella - che da portiere aveva vinto il campionato con il Verona - e Bruno Giordano... Garella parava con i piedi, una cosa incredibile, non usava le mani! Per questo motivo gli chiesi per favore:
"Va bene, non la bloccare, però non farle fare rimbalzi". E lui non lasciò mai un pallone lì per farselo prendere da qualcuno.
Perciò dico che, sia stato il gioco o i risultati o quello che sia, marchiai a fuoco la società portandola a essere rispettata. Tempo prima Paolo Rossi si era rifiutato di venire, diceva che Napoli non era una città per lui, diceva che c'era la camorra. Quel che è certo è che al Napoli non voleva andare nessuno.
Quando vidi per la prima volta Giordano, mi resi conto che era un giocatore adatto a noi: era stato implicato nella faccenda del totonero, lo scandalo delle scommesse clandestine, come il Prode da noi. Mi dicevano Giordano è così, e questo e quell'altro... Giocava nella Lazio, toccava bene la palla, si muoveva a destra e a sinistra.
"Va bene per il Napoli", avevo detto. Poi avevo chiamato direttamente lui:
"Giordano, ti prego, vieni a giocare con noi".
"Quando vuoi, Diego", mi aveva risposto.
A Ferlaino avevano chiesto tre milioni di dollari e lui si lamentava, diceva di non averli.
"Faccia uno sforzo, amico", gli avevo detto.
Alla fine l'affare si era concluso. Per fortuna, perché Giordano si rivelò un fenomeno. Con Bruno ci intendevamo alla perfezione, lui stava un po' più indietro e io mi spingevo un po' più avanti, io realizzai 11 gol e lui 10, ci qualificammo per la Coppa UEFA e arrivammo terzi a sei punti dalla Juve, che vinse lo scudetto.
In quel periodo il tecnico era già Bianchi, Ottavio Bianchi... Bah, i tecnici eravamo noi, a me lui non andò a genio fin dall'inizio. Era duro, non sembrava neanche latino, casomai tedesco, non gli tiravi fuori un sorriso nemmeno a suon di milioni. Con me non insisteva più di tanto perché sapeva che, quando diventava pesante, lo lasciavo blaterare. Era un tipo autoritario, ma per me aveva una certa deferenza. Un giorno mi disse:
"C'è un esercizio che vorrei che lei facesse".
"Quale?".
"lo tiro il pallone e lei deve buttarsi a terra, spazzare di destro e spazzare di sinistro".
"Questo no, io non mi butto per terra... In genere sono gli avversar! che mi buttano per terra...".
"Bene, a quanto pare avremo problemi per tutto l'anno".
"Bueno, e te finirai per andartene".
Così era il rapporto, per quanto i risultati non mancassero. […]
Andò a finire che terminammo terzi. Terzi! Per il Napoli era un successone. Campione la Juve, seconda la Roma e terzi noi. Ricordate quello striscione del Verona nella prima partita della mia carriera in Italia? Quel "Benvenuti in Italia" indirizzato ai napoletani? Bueno, arrivò il momento della rivincita, la vendetta...
Accadde il 23 febbraio del 1986. Tutta la curva, il loro settore, gridava "Lavatevi! Lavatevi!". Ci stavano battendo 2 a O, i napoletani erano indignati... La tocco io, pim!, parti!, un difensore sbaglia, gol. E a quattro minuti dalla fine, rigore, lo tiro io, 2 a 2. Festeggiammo come se avessimo vinto la Coppa dei Campioni! E, dirò, tutti quelli del Napoli che stavano in panchina, invece di venire ad abbracciare noi andarono a mettersi sotto la curva che aveva gridato "Lavatevi! Lavatevi!". Eravamo così, così era la squadra e così era la città dove giocavamo e vivevamo.

Campionato 1986-87
Nella stagione '86-'87 si realizzò, finalmente, tutto ciò per cui avevamo lavorato. Tra l'altro, io ero appena diventato campione del mondo con l'Argentina, in Messico. Non mi mancava niente, niente... Bueno, sì, avevamo perso la Coppa UEFA al primo turno contro il Toulouse, ma non potevamo neanche fare tutto; tra l'altro io quel giorno avevo sbagliato un rigore decisivo: già, perché perdemmo ai rigori... Ma lo stesso, eravamo nel grande giro.
Avevo chiesto a Ferlaino di comprare Carnevale, Andrea Carnevale, e siccome lui aveva imparato che non sbagliavo quando gli chiedevo qualcuno, lo fece venire dall'Udinese. Mi aveva chiesto cosa ci mancasse per conquistare la corona e io gli avevo risposto:
"Un po' di fortuna, presidente. Solo un po' di fortuna".
Le altre, le grandi, erano spaventate. Avevano Platini, avevano un sacco di fenomeni, però avevano anche paura, una paura nera! Esponevano striscioni razzisti, ma per timore: non capivano come dei poveracci del sud si stessero prendendo una fetta di quella torta che prima mangiavano solo loro, e per giunta la fetta più grande!
Conquistare il primo scudetto del Napoli in sessantanni di storia fu per me una vittoria senza paragoni. Diversa da qualunque altra, compreso il titolo mondiale con la Selección dell'86. Perché il Napoli l'avevamo fatto noi, dal basso, da operai. Mi sarebbe piaciuto che tutti avessero visto come l'abbiamo festeggiato, come l'abbiamo celebrato più di qualsiasi altra squadra. Molto di più! Era uno scudetto di tutta la città. E la gente cominciava a capire che non bisognava avere paura, che non vinceva chi aveva più soldi ma chi lottava di più, chi cercava... Per quella gente io ero il capitano della nave, ero la bandiera. Potevano toccare chiunque, ma non me... Il fatto è che... molto semplice... quando avevamo cominciato a organizzare la squadra, erano arrivati i risultati: veniva l'Inter e la battevamo, veniva il Milan e vincevamo. Battevamo tutti.
Il 9 novembre 1986, a Torino contro la Juventus, successe una cosa incredibile: perdevamo 1 a O, pareggiammo e lo stadio esplose, tutti festeggiavano... Noi non capivamo. Quando avevano segnato loro, avevano detto "gol" e basta. Segniamo il secondo e di nuovo tutti a festeggiare. Segniamo il terzo, e ancora di più. Claro, lo stadio era pieno di lavoratori, tutti del sud! Terminarono gridando "Na-po-li! Na-po-li!", una cosa impressionante.
Eravamo già campioni quando venni a conoscenza di un piccolo dato statistico, del resto i giornalisti italiani vanno pazzi per la statistica: solo due squadre avevano vinto nello stesso anno scudetto e Coppa Italia; e tutte e due del nord, Torino e Juventus. Così che, prima di giocare la finale di Coppa, dissi alla stampa:
"Sì, chiaro che sarebbe bello vincere anche la Coppa Italia. A quanto sembra è difficile, ma forse la spiegazione sta nel fatto che i candidati sono sempre stati del nord. Noi del sud non siamo nella posizione di non approfittare delle chances. Né nel calcio... né nella vita".
L'avevo buttata là, però ci riuscimmo. Per giunta contro una delle tifoserie più razziste d'Italia, quella dell'Atalanta di Bergamo. Tutto era perfetto.
Ma il problema... qual era il problema? Era che i dirigenti del Napoli non ne volevano sapere di spendere. E sì che dopo quello scudetto fummo sul punto di eliminare il Real Madrid in Coppa dei Campioni. Al Bernabeu ci toccò giocare la partita di andata a porte chiuse, e per il ritorno la gente era impazzita, sembrava che tutti i napoletani del mondo volessero essere al San Paolo: incassammo quattro milioni di dollari - che in realtà con le rivendite e tutto, nel miglior stile napoletano, erano sette o otto - ma la società non li utilizzò e perdemmo l'opportunità di fare un Napoli grande, grande, grande... Non ci sostituirono neppure il prato del campo di allenamento, giù a Seccavo.
Vi racconto com'era il Paradiso di Seccavo, il centro di allenamento del Napoli? Più simile a quello di una società argentina di seconda divisione che non a quello di un club europeo di prima: le pareti degli spogliatoi cadevano a pezzi, sembravano quelle di casa mia a Villa Fiorito; c'era una tettoia di lamiera per parcheggiare quattro macchine e il terreno del campo ti rompeva i tendini. Per questo dico sempre che a Salvatore Carmando, massaggiatore, kinesiologo e tutto il resto, spetta il 50% del merito per ogni trofeo che abbiamo conquistato.
lo avevo un contratto fino all'89, ma Guillermo decise che era importante accelerare il rinnovo. Tra l'altro, il Napoli in cui ero arrivato due anni prima non aveva niente a che vedere con questo, dopo un terzo posto e uno scudetto. La trattativa cominciò a Madrid in quella partita a porte chiuse che perdemmo con il Real, al Bernabeu, nel primo turno della Coppa dei Campioni.

Settembre 1987.
Siccome alla fine ci eliminarono, Ferlaino cominciò a tirarsi indietro. Però non aveva fatto i conti con qualcosa: Silvio Berlusconi mi voleva portare al Milan... E cominciò il tira e molla, sebbene dentro di me sapessi che non avrei potuto giocare in nessun'altra squadra italiana al dì fuori del Napoli, perché avrebbero ammazzato me e anche chi mi avesse comprato. Lo dissi pure a Berlusconi, quando lo vidi, ricavandone l'impressione di un gentleman, un vincente.
"Berlusconi, se facciamo l'affare dobbiamo andarcene tutti e due dall'Italia; lei perderebbe i suoi affari, perché i napoletani le romperebbero le palle tutti i giorni, e io avrei una vita impossibile...".
All'inizio di novembre dell'87 - eravamo in raduno all'Hotel Brun di Milano per la partita contro il Como - si presentò una splendida Mercedes a prendere Coppola. Lo portarono a Milano 2, dove Berlusconi in persona aveva la propria tenuta. Una di quelle case da film. Disse a Guillermo che mi voleva a tutti i costi, quando mi fosse scaduto il contratto, che aveva speso quasi cinquanta milioni di dollari e non era ancora riuscito a vincere uno straccio di titolo. Non gli chiese neanche quanto guadagnavo al Napoli: lui offriva il doppio! In più mi dava un appartamento in piazza San Babila, la zona più cara della città, l'auto che desideravo - ma non una Fiat 600, eh? Una Lamborghini, o Ferrari, o Rolls Royce -, cinque anni di contratto nella loro organizzazione e un legame con la Fininvest, la sua azienda di comunicazioni.
Vai a sapere come succedono queste cose! Il fatto è che il mio amico giornalista Gianni Mina ebbe la notizia dell'incontro e la pubblicò in dicembre sulla sua rivista Special... Una bomba! La mattina del martedì tutti sapevano che il Milan mi chiedeva e mi offriva tutto quello che volevo; lo stesso martedì sera Ferlaino accettò tutte le condizioni poste da noi e firmammo un nuovo contratto, con il triplo dei benefici che pretendevamo all'inizio: cinque milioni di dollari all'anno fino al '93, senza contare le entrate della pubblicità e del merchandising, circa due milioni in più ogni anno... Un bel po' di soldi, e in più un regalino: il presidente Ferlaino si presentò a casa mia con una Ferrari F40 nera, in quel momento l'unica al mondo!
Non so... non so come sarebbe andata la mia carriera se avessi finito per mettermi d'accordo con il Milan; non so se sarebbe stata diversa, migliore o peggiore. Però i napoletani li conoscevo e sapevo che avrebbero dato la vita per me... Guai a chi toccava Maradona in Italia! Si sarebbero scatenati tutti i napoletani di Torino, di Milano, di Verona, di ovunque. In realtà in quel periodo se c'era qualcosa che non avevo era il problema dei soldi...
Proprio in quel periodo, l'International Management Group aveva fatto un'inchiesta per scoprire chi fosse la persona più conosciuta del mondo. Era uscito il mio nome... Il gruppo chiese allora di comprare i diritti della mia immagine: offrivano cento milioni di dollari, cento milioni di verdoni! Però... però c'era un dettaglio: esigevano che avessi la doppia nazionalità: argentina e... statunitense! E la nazionalità, l'essere argentino, come i sentimenti, non ha prezzo. Non c'è niente che possa ripagare lo smettere di essere argentino, niente. Così rifiutai l'offerta. Fu una scelta mia, come tutte le scelte della mia vita. Guillermo poteva suggerirmi degli orientamenti, ma a decidere ero io, su tutto. In questa storia non c'erano solo i cento milioni di dollari: ci sarebbero state anche altre partecipazioni, per cui la cifra sarebbe lievitata; nella faccenda c'era di mezzo perfino Henry Kissinger. Ma no, no, essere argentino non aveva prezzo.
Il denaro non mi mancava, l'ho detto. In quei tempi facevo un programma alla RAI da cui guadagnavo 250.000 dollari al mese. Avevamo mille punti di rating! Inoltre avevo firmato un contratto da cinque milioni di dollari con i giapponesi della Hitochi per una linea di abbigliamento sportivo che portava il mio nome. E sempre con loro un altro contratto di pubblicità per un caffè freddo, o qualcosa del genere. Dato che dovevamo girare la pubblicità in un qualche luogo significativo, loro avevano proposto il Canyon del Colorado, negli Stati Uniti. Domandai perché e mi spiegarono che era una questione di ambiente, di aspetto del luogo... Allora dissi:
"Facciamolo in Argentina, voglio farlo nel mio paese!". E mi portai i giapponesi a La Rioja, a Talampaya.
"Abbiamo bisogno di comparse", dissero loro.
E io: "Ci sono i miei fratelli, il Turco e il Lalo".
Volete sapere chi ci prestava ogni giorno l'elicottero per andare da La Rioja a Talampaya? Il governatore di La Rioja... Carlos Saùl Menem. Così girammo lo spot e ne uscì una cosa spettacolare... e in Giappone vendettero una montagna di caffè freddo. Facemmo anche delle riprese vicino al cratere del Vesuvio per l'Asahi, una marca di birra anch'essa giapponese. Con queste cose mettevamo su una fortuna, però io in ogni contratto facevo mettere: "Che non alteri il normale sviluppo dell'attività professionale". Realizzammo serie televisive, programmi, linee di cancelleria scolastica per bambini, confezioni di dolci, qualsiasi cosa...
Chiedevo automobili che non esistevano e poco dopo me le portavano. Successe con una Mercedes cabriolet che in Italia non c'era. Buttai lì la cosa a Guillermo e lui telefonò alla Mercedes, funzionava sempre. Passò un po' di tempo e un giorno Guillermo mi disse di affacciarmi al balcone... Guardai in basso e la Mercedes era lì, con tutti i tizi che l'avevano portata giù, tutti capi, era la prima che entrava in Italia. Bueno, scesi: tutto molto bello, abbracci di qua, abbracci di là, chiesi la chiave e salii. Mi misi a toccare tutto, il volante, i comandi, una meraviglia... Poi guardai in basso e vidi la leva del cambio:
"È automatica", osservai.
La faccia di Guillermo si trasformò:
"Sì, Die, sì, è automatica, ultimo modello".
Scesi, restituii la chiave ai tizi, ringraziai tutti e tornai a casa: non mi piacevano le macchine con il cambio automatico. Che locura, adesso che lo racconto!
La vita a Napoli era veramente incredibile. Non potevo neanche arrivare all'angolo perché... mi volevano troppo bene. E quando i napoletani ti vogliono bene, ti vogliono bene davvero! "Ti amo più dei miei figli!", mi dicevano. Ti amo più dei miei figli! Non potevo andarmi a comprare un paio di scarpe che cinque minuti dopo c'era la vetrina rotta e mille persone dentro il negozio. Allora ci andava la Claudia, mi comprava lei tutto quanto. E come la rispettavano, lei: "Attenzione a non toccargli la moglie, a Maradona, che sennò domenica non gioca". E il tragitto da casa mia a Seccavo, andata e ritorno? Un'avventura! Funzionava così: in un modo o nell'altro io dovevo uscire, mi preparavo dietro il portone, la macchina con il motore acceso... Quando davo il via, me lo aprivano e io saltavo dentro, dentro a razzo! La folla si apriva e noi passavamo in mezzo, una follia! Quelli che conoscevano la mia tattica mi seguivano con i motorini... fino a che non li distanziavo. Una locura, i motorini a Napoli! Mi inseguivano dappertutto... Ma con la Ferrari o la Mercedes li seminavo. Il motivo per cui a Napoli mi andò tutto meravigliosamente bene nasceva dal fatto che avevo portato cose che loro non avevano: da un punto di vista calcistico, certamente, come colpi di tacco, dribbling e trofei, però anche e soprattutto orgoglio... Orgoglio, perché prima di me Napoli non era considerata, tutti ne avevano paura, lo stesso, all'inizio, l'avevo vista come un golfo bellissimo e niente di più, ma poi mi ero conquistato la gente a forza di tacchetti e di dribbling, me li ero conquistati andando al fronte. Per questo, oggi, qualunque napoletano dirà: "Quelle squadre non le avevano messe su i dirigenti; le aveva messe su Maradona".

Campionato 1987-88
Quelli della stagione '87/'88, la mia quarta in Italia, erano i tempi della formula Ma-Gi-Ca. A me e a Giordano si era aggiunto, grazie a Dio, Careca, Antonio Careca. La gente si era ormai abituata a vederci lottare in cima alla classifica e questa stagione non faceva eccezione, perciò mi preparai ad affrontarla con tutte le mie forze, come non mai.
Nell'ottobre dell'87 mi ricoverai per la prima volta nella clinica del dottor Henri Chenot a Merano, in Svizzera. Dal mio arrivo in Italia non mi ero mai fermato, avevo giocato quasi duecento partite di seguito tra campionato, coppe, amichevoli e Selección. Gli adduttori mi facevano talmente male che anche il dottor Oliva, che con me è stato sempre un mago, non aveva trovato altra soluzione che un po' di riposo. Mi davano fitte tali da farmi uscire le lacrime... E io giocavo, giocavo, giocavo, ma sempre facendomi fare delle infiltrazioni. Per questo quando parlano dei calciatori e dicono che guadagnano troppo, che siamo degli sfaccendati, mi chiedo: hanno idea di cosa significhi un ago di dieci centimetri che si infila vicino all'inguine, in una caviglia, in un ginocchio, nel bacino!? No, certamente no...
Sicuramente, la spiegazione del rendimento che ebbi in quel campionato sta nella terapia a cui mi sono sottoposto in clinica; quello che invece non ho mai capito, lo riconosco, è perché alla fine siamo crollati come siamo crollati. È curiosa la storia di quella stagione, una miscela rara di sentimenti, ancora oggi la ricordo come una delle migliori, se non la migliore, di tutta la mia carriera, perché fisicamente stavo come non mai, un proiettile; e allo stesso tempo una delle più amare, di quelle che al solo nominarle mi danno più tristezza, perché si disse che il Napoli s'era venduto il campionato! Che l'aveva dato via dietro pressioni degli allibratori.
Ma prima è meglio raccontare tutte le cose belle. È tutto scritto, fanno fede i numeri: arrivai a segnare in sei partite consecutive, qualcosa che, credo, non si vedeva in Italia dai tempi di Gigi Riva con il Cagliari; feci gol a tutte le squadre di prima divisione, cosa che nessuno era mai riuscito a fare, per giunta alcuni li segnai con la gamba sbagliata, per esempio all'Udinese. Nelle prime diciannove giornate realizzammo l’87% dei punti, un record storico! Una macchina, eravamo una macchina! Un rendimento che mi servì pure a convincere Bianchi, costretto a mettere da parte il suo autoritarismo: in pratica durante gli allenamenti io facevo solo calcio e mi allenavo a fondo solo tre giorni alla settimana. Il venerdì, solamente massaggi e qualche tiro libero. In più, aveva finalmente accantonato le sue paure: attaccavamo tutti, con me, Careca e Giordano in testa. Tanto è vero che finii capocannoniere con quindici gol, e Careca secondo con tredici... Mancavano poche giornate e avevamo cinque punti di vantaggio.
E ora le cose brutte... Il 17 aprile perdemmo 3 a 1 con la Juventus a Torino. Non vincemmo più, una settimana dopo l'altra, un risultato peggiore dell'altro: pareggiammo 1 a 1 con il Verona, perdemmo 3 a 2 con il Milan, 3 a 2 con la Fiorentina e 2 a 1 con la Sampdoria. Un punto in cinque partite! Perdemmo un campionato che non potevamo perdere e si cominciarono a dire stupidaggini.
La partita decisiva, credo, fu quella contro il Milan al San Paolo: cominciammo perdendo 1 a 0, pareggiai io con una punizione che credo nessuno abbia mai calciato, poi ci liquidarono con una rete di Virdis e una di Van Basten; Careca segnò il gol del 3 a 2, poi l'arbitro Lo Bello fermò Antonio mentre era un'altra volta solo davanti a Galli, il portiere. Se avessimo pareggiato, forse... Ma il nostro destino era segnato. Quel f… di Bianchi aveva cominciato a fare esperimenti, aveva fatto uscire Giordano e tutto era andato a rotoli. In più io stavo messo di m…, infortunato, non avevo più un centimetro libero nel bacino e nel ginocchio per farmi fare infiltrazioni e non fui in grado di andare in campo nelle ultime due partite.
Non è questione di trovare colpevoli per quello che successe... Credo che i miei compagni abbiano sbagliato a tirare fuori quel comunicato per mandare via l'allenatore dopo la sconfitta contro la Fiorentina. Avevano ragione, in realtà, perché con le decisioni che aveva preso, Bianchi aveva davvero rovinato tutto. Infatti l'idea di Garella, Ferrario, Bagni e Giordano era giusta, fu solo diffusa nel momento sbagliato. Il comunicato diceva che non avevamo mai avuto un dialogo con lui, il che è vero... Però le colpe non erano solo di Bianchi, e neppure solo di noi giocatori, come in seguito si è cercato di far credere alla gente. A me non convinse mai né l'una né l'altra tesi... Non tolleravo che mi accusassero ed ero disposto ad andarmene dal Napoli se la gente credeva che qualche giocatore si fosse venduto. Non lo accettai allora e non lo accetto oggi. Per questo rimasi a Napoli, una volta finito il campionato: perché volevo assumermi le mie responsabilità. Ricordo che spedii Claudia e Dalmita a Buenos Aires, nel caso che a qualche hijo de puta fosse saltato in mente di venire alle mani. Rimasi, e ne approfittai per andare alla partita d'addio di Platini; in realtà non ci volevo andare, non ne avevo voglia e fisicamente ero morto, però il francese mi telefonava a casa quindici volte al giorno... Ma soprattutto restai per affrontare la situazione, per parlare con Ferlaino, per dirci in faccia tutto quello che avevamo da dirci. Si parlò di camorra, di totonero. La cosa incredibile è che se n'era parlato pure l'anno prima, l'anno in cui avevamo vinto il campionato!
Con la gente le cose continuavano ad andare bene. Però succedeva che se la gente diceva che la squadra si era venduta, stava dicendo che Maradona si era venduto... E se veramente la pensavano così, allora me ne volevo andare. Nella partita contro la Sampdoria, l'ultima, la gente gridava: "Bianchi, Bianchi, resta con noi!". Cosi pensai: "Va bene, che Bianchi rimanga pure". In realtà la cosa mi infastidiva parecchio, proprio tanto, perché il parere generale della squadra, anche se io non avevo firmato il comunicato, era che il tecnico se ne dovesse andare. Nel momento che perdemmo lo scudetto, Ferlaino avrebbe dovuto dirgli "vattene" e basta. Invece così, con il comunicato, finimmo per renderlo un martire, per dargli più importanza di Maradona... Talmente tanta, che finirono per rinnovargli il contratto immediatamente.
Non è che non fossi d'accordo con i miei compagni o loro con me, al contrario. Ma ormai sembrava che l'obiettivo di tutta la rivolta fosse Maradona, Maradona che aveva organizzato tutto sottobanco, è chiaro? Maradona di nascosto! Invece io non avevo proprio niente da nascondere al tecnico; certo, erano volate parole pesanti quando avevamo discusso, eravamo quasi arrivati alle mani... Calcisticamente parlando, nelle ultime partite era successo che non eravamo sufficientemente forti a metà campo: c'era Romano che aveva appena avuto uno strappo, Bagni che stava male e De Napoli, che era quello che correva per gli altri, distrutto. Neanche noi dell'attacco davamo una mano a quelli del centrocampo e il tecnico non metteva mai quattro volanti. Quando se ne accorse, eravamo già finiti... Voler cambiare proprio nella partita chiave, contro il Milan, fu colpa sua. E fu colpa nostra aver resistito tutto il campionato con Bagni che si faceva infiltrare. Buttai là una semplice analisi dei numeri:
"A parte tutto: se fate il calcolo, Maradona ha fatto quindici gol, Careca tredici, Giordano dieci, jet, e allora? È impossibile perdere un campionato così. Ma se ne fai dieci e te ne fanno dodici, bueno...".
Alla fine tornai a Buenos Aires inca… come pochi al mondo. Prima che tutti partissimo per le vacanze, la società aveva comunicato la sua opinione: appoggiava Bianchi, gli rinnovava il contratto per un anno e lasciava aperta una porticina per dare un calcio nel c… ai quattro ideologi del comunicato: Garella, Ferrano, Bagni e Giordano. A me, quello che mi colpì come un calcio nei co… fu che davano tutto il merito dei nostri risultati al tecnico. Al tecnico! Così in fretta avevano dimenticato? lo ero arrivato prima di lui, avevo lottato contro la retrocessione, avevo combattuto con Ferlaino, gli avevo detto di comprare questo e quell'altro giocatore, e allora? C'è di più... Avevo chiesto a Ferlaino di comprare il Checho, Sergio Batista, e lui di sua iniziativa aveva comprato il brasiliano Alemào. Aveva fatto di testa sua, come tante altre volte.
Quando tornai in Italia, a luglio, decisi di affrontare la situazione con i tacchetti chiodati. Il paesino scelto per il ritiro prestagionale era Lodrone, e là andai a chiedere spiegazioni al tecnico, a difendere i quattro che avevano firmato il comunicato e a consigliare a tutti di non parlare più, perché di que-sto passo a Bianchi gli avrebbero rinnovato il contratto per cinque anni... Parlammo con lui, non gli domandai scusa né niente che gli assomigliasse, però mi resi conto che l'unica via d'uscita per il Napoli era continuare ad andare avanti. Questo feci, e cominciammo un'altra tappa.

Campionato 1988-89
Di quella prima parte della stagione '88-'89, la mia quinta in Italia, ricordo in particolare due partite, due domeniche consecutive che non dimenticherò per tutta la vita. La prima, alla sesta giornata, il 20 novembre 1988, vincemmo 5 a 3 con la Juventus a Torino, tre gol di Careca. E subito dopo, la settimana successiva, il 27, ne facemmo quattro al Milan al San Paolo, 4 a 1. Vi lascio immaginare la tifoseria del Napoli. Nove gol in due partite, alla Juve e al Milan! E continuammo così: il nostro nemico, in quella stagione, era l'Inter, l'Inter del Pelado Diaz. In una partita contro il Bologna, in quei giorni, mi inventai di festeggiare il gol ballando un tango... Il fatto è che quel giorno erano venuti a trovarmi i miei vecchi e il ballo era dedicato a loro. Questo fu: una dedica.
Intanto avevamo cominciato la nostra corsa in Coppa UEFA: non vedevo l'ora di conseguire un titolo internazionale, mi mancava!
Quando arrivarono le feste, realizzai che in quel 1988 mi era successo di tutto... Allora chiusi l'anno con un messaggio che mandai a tutti gli argentini attraverso i media e con il pensiero rivolto alla gente dell'UNlCEF che mi aveva chiamato a collaborare:
"Farei qualsiasi cosa per i bambini di tutto il mondo, soprattutto per quelli che ne hanno più bisogno, mi piace vederli contenti e felici. Per questo mi sono vestito da pagliaccio e ho giocato con loro nel circo Medrano, a Napoli. C'erano più di tremila bambini, e tra loro mia figlia Dalmita. Per questo desidero cooperare con l'UNICEF, aiutare tutti i piccoli che patiscono la fame e soffrono. Sono convinto che sia il modo migliore dì terminare questo 1988... Per questo, anche, ho portato a Napoli i miei genitori, per passare il Natale con loro e aspettare insieme l'anno nuovo, perché mai siamo stati lontani in questa data. È una cosa a cui tengo molto, e grazie a Dio posso farlo... Per me questo 1988 sarà indimenticabile. Ho sofferto una grande tristezza, la sconfitta del Napoli nel campionato italiano, ma ho goduto di molte più gioie: la mia stagione migliore, intanto, e poi veder crescere mia figlia giorno per giorno ed avere tutta la mia famiglia riunita. Questa è la cosa più importante che Maradona possa avere.
Non chiedo nient'altro per me, in questo 1989 che comincia. Come dico sempre, ho paura di pretendere troppo. Desidero solo che mio figlio che sta per nascere arrivi in un mondo migliore, senza guerre, senza fame... Questo, in definitiva, è ciò che desidero per tutti. Buon 1989, Argentina".
E questo era effettivamente ciò che speravo anche per me.
Fu allora che mi venne l'idea di cambiare, di andarmene. Era saltato fuori Bernard Tapie, il presidente dell'Olympique Marsiglia, e mi aveva offerto tutto ciò che volevo e molto di più. Avevo avuto l'occasione di sedere con lui all'Hotel Brun di Milano, ancora una volta, dove ero andato a firmare per una pubblicità... Oltre a lui, arrivato con il suo aereo privato, c'erano Guillermo e un impresario, un certo Santos. Il tipo mi aveva fatto:
"Non parliamo di cifre, io le do il doppio di quello che le da il Napoli... La voglio, a tutti i costi!". […]
Sta di fatto che nel frattempo continuavamo ad andare avanti in campionato e continuavamo ad andare avanti in Coppa UEFA... Proprio per quest'ultima, il 19 aprile dell'89, ci trovavamo a Monaco di Baviera per giocare la partita di ritorno di semifinale contro il Bayern. Il presidente venne da me. Parlammo un po', poi se ne uscì:
"Se vinciamo la Coppa UEFA, ti prometto che ti lascio andare al Marsiglia".
Para quél Ballavo su un piede solo... Non volevo ferire i napoletani, che mi amavano, ma credo che andarmene in una società non italiana non li avrebbe addolorati più di tanto. Insomma, pareggiammo e ci classificammo per la finale, perché nella partita di andata, a Napoli, avevamo vinto 2 a 0. Ora dovevamo giocare contro lo Stuttgart di Jùrgen Klinsmann e io non stavo più nella pelle... Stavamo tenendo un livello de puta madre e sapevamo di poter vincere la Coppa. Il 3 maggio li battemmo 2 a 1, a Napoli. E il 17 pareggiammo 3 a 3 in Germania... L'ultima partita, quella decisiva, fu quella in cui servii il pallone a Ferrara di testa perché andasse in rete, una giocata memorabile perché la toccai così, di testa, da fuori area e dopo un rimpallo... Per me avveniva tutto insieme: il primo titolo internazionale con un club, il nome del Napoli in Europa e... il trasferimento!
Ma Ferlaino non mi lasciò andare. Mi si avvicinò sul campo stesso, quando avevo ancora in mano la Coppa... Mi parlò all'orecchio, afferrandomi per le spalle, e mi disse:
"Andiamo a rinnovare il contratto, vero Diego? C'è ancora tanto da fare".
Avrei voluto sbattergli la Coppa sulla testa, invece mi venne soltanto:
"Non è il momento, presidente, non è il momento... lo ho mantenuto la mia promessa, ora tocca a lei mantenere la sua".
E lui, lì sul campo:
"No, no, no... Non se ne parla, l'avevo detto solo per motivarti", rispose.
Così cominciò un'altra guerra. In realtà scoppiarono le bombe di battaglie precedenti, che per vari motivi non erano esplose prima, e ciò che rimase da lì in avanti fu un campo minato...
Quando terminò il campionato e tornai in Argentina per unirmi alla nazionale e giocare la Coppa America, cominciai a dire tutto ciò che pensavo... Ferlaino aveva chiamato Còppola in Brasile per dirgli che potevo scordarmi di essere ceduto, che non mi avrebbe lasciato andare per tutto l'oro del mondo. E io non ce la facevo più, non ce la facevo! Mi costava parecchio perdonare a Ferlaino - a quell'epoca, oggi ormai l'ho perdonato - che avesse dubitato di me dopo cinque anni che mi conosceva. Il 7 maggio, dopo una partita contro il Bologna che non giocai perché quel maledetto dolore al bacino non mi permetteva neanche di camminare, lui aveva dichiarato di non ritenere che mi sarebbe durato a lungo... E io che quel problema ai fianchi me lo portavo dietro fin dai Cebollitas! Ma se ne avevo imparato perfino il nome scientifico: lombaggine artritica professionale! Mi infilavano aghi di dieci centimetri per farmi giocare! Del resto mi fa male ancora oggi... Però, ero io quello poco professionale, quello irrispettoso... Mi sarebbe piaciuto tenere una statistica delle partite che avevo giocato lesionato, infiltrato; ancora un po', ingessato... Attenzione: lo farei di nuovo! Perché in realtà quello che volevo era giocare e vincere. […]
Fu allora che, per un caso, cominciarono a mettermi in rapporto con la droga e la camorra. Sul quotidiano II Mattino e su altri giornali erano apparse alcune mie foto in compagnia di Carmine Giuliano, accusato di essere il boss di uno dei gruppi camorristi, il capo di uno dei quartieri più agguerriti, Forcella... Che in città ci fosse la camorra, non sarò certo io a negarlo. Però da qui a dire che io facessi affari con loro, ce ne corre. A me non hanno mai rotto i co…, come se per il fatto che io facevo divertire la gente, loro dicessero: "II pibe va lasciato stare". Riconosco che era qualcosa di intrigante, quel mondo, lo riconosco. Per gli argentini era una novità: la mafia!, e come sarà, la mafia!? C'era qualcosa di affascinante, in questo. Anche a me avevano offerto cose, ma non avevo mai voluto accettarle: per il motivo che prima ti danno e poi ti chiedono... A me chiedevano di andare nei club dei tifosi, mi regalavano orologi... Al massimo era questo il rapporto che avevo, e se vedevo che la cosa non era cristallina, non accettavo... Era un periodo incredibile: ogni volta che andavo in uno di questi club mi regalavano Rolex d'oro, automobili... Automobili! Per esempio, mi regalarono la prima Volvo 900 che arrivò in Italia... lo chiedevo:
"Però, che devo fare?".
E loro: "Niente, fatti fare una foto".
"Grazie", dicevo io, e il giorno dopo vedevo la foto sul giornale. Fu così che venni ritratto con Carmine Giuliano e la sua famiglia.
Bueno, dicevano pure che facevamo traffici di droga. Allora da Buenos Aires mandammo un comunicato per raccontare e denunciare un sacco di cose che nessuno sapeva. E chiedevamo protezione per tornare, perché se non c'erano le condizioni di sicurezza non saremmo tornati neanche morti. […]
Qualcuno diceva che i napoletani non mi amavano più, che era pericoloso che tornassi. Allora decisi di tornare per affrontare la situazione, per vedere chi mentiva e chi era il più guappo... Parlavano di camorra e di droga? Era facile prendersela con un giocatore che era obbligato a mostrarsi, che doveva affrontare i controlli antidoping. E i dirigenti? Quelli che venivano a salutarti nello spogliatoio ed erano talmente fatti che non riuscivano neanche a parlare... Insomma, tornai. In poco tempo e ancora una volta grazie a Fernando Signorini, che durante il periodo in cui ero stato in vacanza aveva messo a punto un piano di lavoro impressionante che terminava con i Mondiali d'Italia.

Campionato 1989-90
Rientrai contro la Fiorentina, il 17 settembre del 1989, e per la prima volta andai in panchina, con il numero 16. Entrai nel secondo tempo, barbuto com'ero, e... sbagliai un rigore! Nessuno mi fischiò, nessuno di quelli che secondo i giornali mi odiavano mi insulto, nessuno. Al contrario. Per questo gli unici che perdonavo - e perdono - erano la gente, i tifosi: gli altri, quelli che avevano parlato, quelli che avevano scritto, volevano solo aggiustare ciò che loro stessi avevano guastato. Siccome avevo saltato quindici giorni di allenamento ero un mafioso, un drogato, un camorrista. Una volta tornato, e applaudito, ero di nuovo un bravo ragazzo. E tutto perché facevo il mio lavoro, e lo stavo facendo, a quel punto, già da tredici anni... Mi dette fastidio, mi dette molto fastidio che Ferlaino e la società non mi difendessero. Stavo preparandomi una rivincita, una rivincita che non immaginavano neppure. Diversa da qualunque altra cosa che avessi fatto prima nei miei anni di ribellione.
Fu come se mi fossi scelto gli avversar! per gridare in faccia a tutti: vedete, vedete che bisogna pensare prima di parlare? E il Milani Al Milan, al quale si supponeva che avessimo venduto il campionato precedente, gliene facemmo tre, uno mio... 3 a 0, il primo ottobre al San Paolo, in una di quelle partite che sogni da ragazzine, dove ti riesce qualsiasi cosa.
A partire da quel ritorno contro la Fiorentina giocai venti partite di seguito, una meglio dell'altra... E quando sembrava che lo scudetto se lo prendesse il Milan, il quale al Giuseppe Meazza ci aveva restituito il 3 a 0, il Barbuto (Dio) tornò a darmi una mano. O, per meglio dire, mi tirò una moneta.
Era l'8 aprile del 1990. In quell'epoca io volavo, volavo davvero! Andammo a giocare a Bergamo e ripagammo i tifosi dell'Atalanta, i più razzisti d'Italia, con la loro moneta. Ne tirarono una ad Alemào mentre tornava nello spogliatoio, gli fecero un taglio in testa e la partita venne sospesa. Poi il tribunale assegnò a noi la vittoria! Dopo, quando tutti davano già per scontato che il Milan avrebbe conquistato un'altra volta il titolo, effettuammo il "sorpasso", come dicono gli italiani. Il 22 aprile battemmo il Bologna, lo stesso Bologna che l'anno prima aveva provocato la mia lite con Ferlaino per la storia del bacino, guarda un po' come vanno le cose. Sta di fatto che quando tutti credevano che il nostro primo scudetto fosse stato un miracolo, qualcosa che non si sarebbe mai ripetuto, eravamo lì, sulla soglia del secondo.
La stagione che era iniziata nella maniera peggiore, con me dipinto come drogato e camorrista, sull'orlo dell'abisso, terminava con il titolo... Non mi ero mai sentito meglio fisicamente, mai. Volavo.
Dovevamo giocare l'ultima partita contro la Lazio, ma la storia era ormai scritta. Ricordo che all'uscita dell'ultimo allenamento, a Seccavo, i giornalisti italiani mi domandarono se avevamo sofferto meno dopo che si erano placate le polemiche di inizio stagione, se non avevo niente di cui pentirmi. Come risposta, mi uscì nel mio miglior italiano:
"A me piacere vincere così". Mi piace vincere così.
Il 29 aprile, con i miei compagni della Selección già atterrati in Italia per affrontare la fase finale dei Mondiali, giocammo l'ultima partita contro la Lazio. Una formalità, amigo, una formalità. Gol di testa di Baroni e via a riscuotere, riscuotere un'altra volta.
Li avevo stroncati, tutti si erano di nuovo arresi, nessuno riusciva a dire una parola. Solo io parlai: dissi che la colpa di tutto quello che era successo non era né di Maradona né di Ferlaino; dissi che la cosa migliore che ci era capitata era aver fatto venire un tecnico come Albertino Bigon, che sapeva parlare con i giocatori. E, dopo il giro d'onore, dallo spogliatoio mandai un messaggio all'Argentina:
"Questo titolo, questa nuova gioia, è per il mio vecchio. Appena finita la partita ho parlato per telefono con lui e abbiamo pianto molto entrambi... Molto... Mi ha detto che era contento per me e per quelli che mi stavano vicino, ma per nessun altro. Non ha dimenticato che l'ultima volta me ne sono andato dall'Argentina come un delinquente o poco meno... Mi hanno dato dell'irresponsabile, quando tutti sanno che ho realizzato quel che ho realizzato lottando dal basso, che quando ho cominciato non avevo neanche i soldi per l'autobus... Sono state dette cose molto brutte, dappertutto... E lui, che è un vecchio saggio, non perdona; non è così morbido come me. Voglio dire una cosa: mi basterebbe avere il cinque per cento della sua onestà e dei suoi principi... Ho pianto, abbiamo pianto insieme... Dedico questo scudetto a lui, perché lui ha sofferto per me. E ringrazio Dio per i genitori che mi ha dato".
Un attimo prima, ancora in campo, appena sentito il fischio finale, avevo gridato dal profondo dell'anima e con tutto il cuore:
"Questa è la prova che io mi conosco meglio di chiunque altro! E la ricompensa perché mi lascino vivere la mia vita! Voglio vivere la mia vita, per favore!".
Invece non me lo permisero. No, non me lo permisero... Lo sanno tutti quel che accadde dopo, lo sanno tutti: il Mondiale d'Italia, per il quale mi ero preparato come non mai, l'eliminazione dell'Italia e... la loro vendetta. Non me l'hanno mai perdonato, mai, per questo tutto è finito come è finito. Ricordo che andai a un programma della televisione italiana, solo perché era condotto dal mio amico Gianni Mina, e dissi, tra le altre cose:
"Perché mi odiano in Italia? Quando sono arrivato al Napoli ero un giocatore simpatico, che tutti ammiravano e adoravano... perché non vincevamo niente. Ero simpatico e ammirato perché giocavo bene, però il Napoli si prendeva quattro gol a Torino, quattro a Firenze, e così via tutte le domeniche. Quando il Napoli ha messo su una grande squadra e abbiamo cominciato a vincere su tutti i campi, sono diventato antipatico. In cinque anni, da quando sono arrivato, il Napoli ha vinto due scudetti, la Coppa Italia, la Coppa UEFA, due secondi posti e un terzo posto in campionato. E a qualcuno deve aver dato fastidio che Maradona e il Napoli abbiano vinto così tanto. In più, dopo il Mondiale, nel dicembre del '90, abbiamo vinto la Supercoppa italiana battendo la Juve 5 a 1. Cinque a uno! Questi trionfi devono aver fatto male a più di una persona... Dicevano che me la spassavo nelle discoteche, nei night club, cose che, per quanto ne sappia, non hanno mai fatto male a nessuno. Il giorno prima della partita contro la Juve, con molti ragazzi del Napoli siamo stati in un locale e a quanto pare ci ha fatto molto bene, visto che il giorno dopo gliene abbiamo rifilati cinque. Mi criticavano anche perché spesso mi allenavo a casa mia. E allora? Mi sono sempre allenato in garage e non volevo cambiare le mie abitudini, visto che in campo mi andava sempre bene. Sempre bene".
Poi successe quella brutta storia della partita di Mosca, contro lo Spartak. Durante la settimana non mi ero allenato bene, ero rimasto a casa e la squadra era partita per la Russia senza di me. Tutti si chiedevano se ci sarei andato o no, se ci sarei andato o no. E ci andai. Ci andai, arrivai con un aereo privato, però arrivai. Pareggiammo lai, andammo ai rigori e perdemmo, altrimenti avremmo continuato anche in Coppa dei Campioni... Il fatto è che io ormai ero partito con la testa.
Dopo il Mondiale non sarei dovuto tornare, no, non sarei dovuto tornare. Quella partita contro l'Italia, a Napoli, con il gol di Caniggia, era stata la mia sentenza, la mia sentenza... Non avevo cercato di creare una sollevazione dei napoletani contro il resto d'Italia, quando avevamo giocato là, perché sapevo e sentivo che anche i napoletani erano italiani... Erano gli altri italiani, quelli che non vivevano a Napoli, che non volevano farsene una ragione, non volevano accettarlo: si erano accorti solo quel giorno, il giorno della partita, che anche i napoletani facevano parte dell'Italia ma che potevano aiutare la Selección... Sapevo bene cosa ci capitava quando andavamo a giocare in trasferta, quegli striscioni con: "Benvenuti in Italia. Lavatevi. Terroni". Perché avrei dovuto ignorare quel razzismo? Perché non avrei dovuto ricordarmene proprio nel momento in cui gli italiani, per interesse, avevano deciso di aggiungere Napoli alla loro carta geografica? Non ho mai preteso che tifassero per me, mai... Però mi amavano, mi amavano talmente che la Curva B aveva esultato per il mio gol su rigore contro l'Italia, esultò. Perché di argentini ce n'erano ben pochi, ma gli urli li ho sentiti bene... Il problema fu che li hanno sentiti tutti, tutti... E non me l'hanno perdonato.
In più ci fu l'interruzione del mio rapporto con Guillermo. Accadde nell'ottobre del '90, cinque anni dopo aver iniziato. Ci separammo per ragioni nostre... E io decisi che con me avrebbe continuato a lavorare un uomo del gruppo, Juan Marcos Franchi. Con Guillermo avevamo bisogno di una parentesi, e il tempo ci ha dato ragione. Se prima vivevamo in un clima tremendo, perché era tremendo, dopo il Mondiale fu ancora peggio. Ormai era tutto troppo cambiato. Il Napoli non era più lo stesso, niente era più lo stesso.

Friday 2 March 2007

Fantacalcio

secondo me c'è un po di confusione sul concetto di culo.
culo è quando fai 5 gol? o in quel caso hai una squadra forte?
quando ne fai solo uno e fai 66, hai culo? o sei sfigato perchè pur facendo un gol poi ha dei voti di merda?
culo è quando segna un difensore? o alla fine uno quel difensore ha avuto il coraggio di prenderlo e di piazzarlo in campo?
se gilardino la mette è culo, o è sfiga che fino ad ora ha fatto cagare?
se pareggio 2 a 2 è culo o sfiga? mia o del mio avversario? oppure, come insegna mitch, il culo è fondamentalmente qualcosa che ha tutte le domeniche il suo avversario?

Il culo nel fantacalcio è tutto o si può parlare di lungimiranza, bravura nel sparpagliare i tuoi giocatori in campo, attenzione alla loro forma, conoscenza del mondo del calcio?
Quando comprai Chevanton, che poi fece quella stagione da urlo con 19 gol, ci avevo azzeccato o scavando scavando ho avuto culo?

Il concetto secondo me è che il fantacalcio è una scommessa settimanale, e se vinci una scommessa si può dire avendo ragione che hai avuto culo, ma per avere culo, bisogna sapere su chi scommettere.

Se quello del culo è un concetto complesso, invece molto chiaro e limpido è il concetto di SFIGA, di cui questa stagione sono insigne rappresentante; in parte per la roboante asta che ho fatto a settembre (mi vedo li la sciura sfiga che ci guarda mercanteggiare e pensa "quello che prende Gilardino gli faccio passare una stagione di inferno"...e io in sottofondo che dico con voce sommessa: "141"), in parte per il clamoroso numero di gol che ho subito! 41!! e per il fatto che il mio avversario segna sempre almeno 2 gol ( con eccezion fatta di 1-3-4), da tutto il girone di ritorno.

che dire? boh!

ma forse alla fine ha ragione Quiqui, che anni fa, un lunedì, dopo che gli avevano segnato Scozzamiglio e Cavazza, disse a Ciccio "figa che culo la tua doppia di Montella!"... .....
e con questa nel cuore, torno al lavoro!

dami



Dami, cmq tu una scommessa l'hai vinta, ovvero Gionatha Spinesi, pagato una miseria.
Io ho Mutu che ha fatto gli stessi gol del gabbiano Gionatha. Avrei preferito (ma anche no) spendere meno e prendere quel giocatore che inseguire Mutu.
Ma qui subentra una cosa che manda a puttane la ragione, ovvero il sentimento: amo alla follia Mutu, amo i giocatori tecnici (Foggia, Kakà, Liverani, Montolivo, etc.) e quelli giovani grintosi (De Rossi, Mexes, etc.) e poi ci sono le scelte 'obbligate' che faccio dicendomi "beh quello là farà almeno 10 gol" (vd. Bonazzoli Emiliano, giocatore bidone quest'anno) oppure "beh quello là farà almeno 15 gol ed una grande stagione" (vd. Amauri e il suo crociato).
Perchè altrimenti sarebbe un cinico valutare statistiche, giocatori e situazioni nella maniera più fredda e distaccata possibilie.
E io, da buon terrone, non sono così.